#passalastoria

L’associazione Mus.Amb.A ha dato il via ad un progetto di scrittura creativa suggerendo a tutti un modo per trascorrere, in maniera altenativa, il periodo di isolamento febbraio-giugno 2020. Il gioco consiste nel passarsi telematicamente una sorta di manoscritto; tenerlo per un certo tempo massimo provando a portare avanti la storia senza modificare ciò che è stato scritto prima, firmare con il proprio nome e passarlo al prossimo “scrittore”.

Di seguito il risultato del nostro progetto!


#Passalastoria #1


Giovanna correva.

Era uscita di casa in pigiama e ciabatte, e già era tanto che fosse riuscita ad infilarsele, le ciabatte, e scendere le scale senza cadere. Quelle ciabatte erano un grande impiccio mentre correva, ma non poteva mica correre scalza, lì, in aperta campagna. Oltretutto era buio. Beh, non proprio buio, l’astronave che la stava inseguendo emanava un raggio di luce sui campi, ma l’intento di Giovanna era per l’appunto quello di sfuggire all’astronave e a quel suo raggio di luce. Non poteva voltarsi spesso per controllare dove fosse l’astronave, doveva correre, e possibilmente stare attenta a non inciampare. Quindi, se aveva meno luce, era più sollevata, perché significava che l’astronave era più lontana, ma se aveva più luce poteva correre meglio perché almeno vedeva dove metteva i piedi. Un casino.

Comunque, la luce cominciò ad essere un po’ troppa. Porca miseria, pensò. Si fermò e guardò in alto alle sue spalle. L’astronave veniva proprio verso di lei, l’avevano beccata, era chiaro. Giovanna tornò a correre, ma dopo pochi metri tutti e cinque i filari di cicorie che il vicino aveva piantato e avrebbe raccolto a giorni, e che lei stava per attraversare, presero fuoco, bloccandole il passaggio. Si voltò di nuovo. L’astronave stava ormai atterrando. Giovanna si arrese.

Lo spostamento d’aria provocato dall’atterraggio le fece finire qualcosa in un occhio, quindi adesso doveva affrontare degli alieni, e magari, chissà, combattere per salvare il mondo dall’invasione, oltre che in pigiama, anche vedendoci solo da un occhio e lacrimando copiosamente dall’altro. Perfetto. Chissà cosa volevano, poi. Perché lei? Dovevano volere proprio lei, perché erano diverse notti che veniva svegliata da una forte luce che veniva da dietro le persiane e che spariva non appena lei si alzava per vedere di cosa si trattasse. Cosa potevano volere gli alieni da una dottoranda in storia medievale che, peraltro, aveva decisamente bisogno di dormire perché era in tremendo ritardo con la tesi? Avrebbe capito se fosse stata un’ingegnera aerospaziale, un’astrofisica o qualcosa del genere, ma aveva abbandonato gli studi scientifici e tutto ciò che fosse a loro anche lontanamente correlato alla fine delle superiori, quasi un decennio prima, e già lì aveva rischiato sistematicamente di essere rimandata in almeno una materia tra biologia, fisica e chimica praticamente tutti gli anni.

L’astronave toccò terra. Si aprì un portellone e ne uscì una scala piuttosto ampia sulla quale si srotolò un tappeto di velluto rosso che andò a terminare proprio davanti alle ciabatte di Giovanna.

“Salga, dottoressa.” la invitò con tono cortese una voce da dentro l’astronave. Giovanna ritenne di non avere scelta, a quel punto, con le cicorie alle sue spalle ancora in fiamme, e salì.

Maria Laura Travaglio


Appena salita sull’astronave esclamò: “Ehi! Avete carbonizzato le cicorie!”. Giovanna ci teneva a quelle cicorie. Ci teneva perché il vicino come sempre gliene regalava qualcuna, così poi lei si preparava la sua bella minestra con cicorie e fagioli. Quella minestra la stava pregustando da giorni.

Rifletté. Si rese conto che si trovava esattamente sull’astronave da cui un attimo prima stava scappando. Forse quella non era la cosa più giusta da dire. Per fortuna nessuno sembrava averla sentita. Perciò decise di lasciar perdere le cicorie, seppur con rancore, e di analizzare un attimo la situazione.

Degli strani esseri bassi, verdognoli e dalle lunghe orecchie, avanzavano verso di lei a passo lento agitando la mano come per salutarla e indossavano degli strani indumenti aderenti dai colori accessi e scintillanti, forse delle paillettes.

A Giovanna venne un flash! Somigliavano ai suoi furbie di quand’era bambina ma vestiti come le Spice Girls! O forse no. Forse somigliavano al maestro Yoda di Star Wars ma vestiti come le Spice Girls! Giovanna si domandò allora se quegli strani giochi degli anni 90 non le avessero procurato qualche trauma e se tutte quelle serie TV non le stessero effettivamente dando dei problemi. In più le Spice Girls non le erano mai piaciute ma ‘‘If you wanna be my lover’’le ronzava fastidiosamente in testa. Forse Giovanna stava avendo un incubo.

Ilenia Tummillo


Nemmeno il tempo di pensare che potesse essere davvero un incubo, che si sentì come pietrificare, non riuscì più a muoversi, si fece tutto buio intorno e si accorse di avere gli occhi chiusi, serrati senza possibilità alcuna di aprirli nonostante si sforzasse. Dove erano finiti quei buffi ometti verdi? Allo stesso tempo ebbe l’impressione di essere sdraiata su una superficie dura e fredda che le fece correre un fulmineo brivido lungo la schiena. “Mi stanno per vivisezionare!”

Una sensazione di affanno si accompagnò ad un formicolio lungo il braccio destro che in un attimo si spiegò su tutto il resto del corpo; l’affanno si tramutò in asfissia finché “…hhaahhhha…” un grido soffocato in gola che le fece rigonfiare le guance e poi le labbra fino a far uscire l’ultima molecola d’aria dal suo corpo…

Ora era sveglia con, il cuore a mille ed un respiro pesante come se avesse appena terminato una maratona…nel suo letto. Aprì gli occhi, ora con facilità, ed un lampo lasciò lo spazio al buio. Un buio stranamente non tetro. Si voltò di scatto a guardare la sua sveglia… stava albeggiando erano le 5.32 e quello era stato forse un sogno, un incubo, o forse… o forse no!

Restò sveglia a guardarsi intorno nella sua piccola camera del dormitorio universitario a tentare di capire quanto fosse stato solo un sogno angoscioso o quanto fosse stato reale quello che era accaduto. Suonò la sveglia! Quel tintinnio le fece abbandonare tutte quelle fantasie ricordandole che si doveva alzare per affrontare una nuova giornata.

L’intera giornata passò nella solita tranquilla frenesia tra lezioni agli studenti e tentativi di portare avanti la sua tesi di dottorato che da qualche giorno faceva fatica a far progredire.

Aveva scelto un tema forse troppo complesso ma che l’affascinava tantissimo: L’arte pittorica ed il medioevo. D’altronde lei amava questo periodo storico sin da bambina, quando alle elementari la maestra le fece fare una ricerca sui templari. Quello che più la intrigava erano i numerosissimi miti e leggende che avvolgevano il medioevo e che lo rendevano un periodo storico ancora oggi considerato oscuro da molti studiosi. A questo si aggiungeva poi la sua passione per l’arte ed ecco che così si era ritrovata a “combattere” con la sua tesi.

Era ormai sera. Aveva cenato da poco e mantenendosi leggera: temeva, in maniera forse anche poco conscia, che, forse, l’incubo fatto (perché oramai la sua razionalità l’aveva convinta che quello era stato), fosse legato ad un malessere gastrointestinale.

Si era rimessa da subito a lavorare alla sua tesi, quando, in maniera maldestra urtò su uno dei tanti libri che stava consultando. Era quello di un famoso critico d’arte che cadde aprendosi su una pagina: “le Madonne e le entità aliene nell’arte Medievale e Rinascimentale”. Lesse quelle pagine del libro e poi l’intero capitolo in pochissimo tempo, quasi senza respirare e con una crescente curiosità. Quello che lesse la colpì al punto che, lasciando da parte la sua tesi, prese il suo portatile e si mise a fare ulteriori ricerche sull’argomento, finché senza capire quando e come, si addormentò.

Dormì profondamente, senza far alcun sogno. Al suo risveglio, però, nella sua testa si fece largo una convinzione: l’incubo della notte precedente non era casuale, né tantomeno colpa della minestra con cicorie e fagioli mangiata la sera prima. Tutto quello che le stava accadendo doveva avere un qualche significato… ma quale?

Vito Oliveto


I giorni passarono. Ma Giovanna continuò a pensare ossessivamente a quella notte, a quel evento che sperava con tutto il cuore fosse un sogno, quell’evento che aveva turbato il suo già fragile equilibrio psicologico. Il giorno della consegna della tesi si avvicinava e lei non aveva ancora terminato di scrivere l’ultimo capitolo. Inoltre, era da tempo che non usciva, che non frequentava nessuno. L’ultima chiacchierata che aveva avuto era stata con quel vecchio agricoltore che abitava vicino al dormitorio e che le aveva regalato un po’ di verdure. Aveva passato cinque anni in quel dormitorio di periferia e non era mai riuscita a trovarsi degli amici veri, quel genere di amici con cui ci si ubriaca fino a vomitare l’anima e ci si confida sulle cose più personali, quel genere di amici che un giorno i tuoi figli chiameranno zii. Giovanna cominciò a pensare seriamente che aveva bisogno di un aiuto psicologico: la solitudine e lo stress dovevano essere la causa scatenante di quello che le era successo. Prese la decisione di prenotare online una seduta con uno psicanalista, quando si rese conto che la pelle del ragazzino brufoloso a cui dava ripetizioni di latino non aveva il solito colorito e che le appariva verdognola come le squame di un alieno. Sapeva che gli psicanalisti erano esperti di sogni, qualcuno del campo avrebbe potuto aiutarla. Fu facile sceglierlo, non ce ne erano molti abilitati alla professione in città. Indossò un maglione giallo, si truccò, attivò Google Maps e, dopo aver preso un autobus, giunse a destinazione. Bussò la porta e fu accolta da un uomo di mezz’età con lunghi capelli corvini e degli occhiali decisamente demodé. “Buon pomeriggio, lei deve essere la signorina Arabella! Prego si accomodi”. Giovanna lo salutò cordialmente, sforzandosi di sorridergli. “Si accomodi pure sulla poltrona rossa” disse l’uomo. “Che cosa ci fa qui? Tutti gli psicologi e gli psicoterapeuti della città erano occupati immagino?”. “Bhe no – disse lei – io avevo proprio bisogno di uno psicanalista”. L’uomo la guardò sorpresa. “Davvero? Sicura? Lo sa di cosa si occupa uno psicanalista? Lei lo sa cos’è uno psicanalista?”. “Si, insomma penso di sì”. “E cosa la porta qui da me?” sorrise lui, mentre si accoccolò sulla sua di poltrona, aprendo un taccuino. “Bhe, ho fatto un sogno strano e pensavo che lei avrebbe potuto aiutarmi”. “Un sogno? Ma lei lo sa che l’interpretazione dei sogni è una cosa superata? Le neuroscienze l’hanno dimostrato. I sogni non significano nulla, non sono altro che un’orgia di immagini con cui il nostro cervello si diletta. È la pornografia del subconscio. Lei ci trova un senso nei porno? Andiamo hanno delle trame così inconsistenti”. Giovanna strabuzzò gli occhi: “Ehm presumo di no… Ma scusi l’interpretazione dei sogni non è un pilastro delle ricerche di Freud? Non dovrebbe essere la base del suo lavoro?”. “Freud? Ma lei prende sul serio quello che diceva quell’eroinomane lì? Io non gli darei così tanto credito. Sa Freud è superato, Jung è superato, Recalcati è superato. Le dico sinceramente che il mio mestiere è tutta fuffa, non ha niente di scientifico o che vagamente somigli alla scienza… Si legga Popper…Io non volevo farlo neanche questo mestiere… oddio mi sento così confuso”. Al confronto con quel colloquio, essere rapita dagli alieni non le sembrò una cosa così surreale. Giovanna si alzò, interrompendo quella serie di vaneggiamenti, mise delle banconote sul tavolino e si congedò imbarazzata: “Mi scusi, penso di aver fatto un errore a venire qui, la saluto”. Sgattaiolò via il più velocemente possibile, mentre lo psicanalista la supplicava di fermarsi: “No aspetti! Si fermi! Lo so non sto bene, dovrei farmi vedere da qualcuno. Qualcuno che sia capace, non da uno psicanalista, questo è certo. Ma si fermi!”. Giovanna uscì da quello studio più turbata di prima. Il mistero del sogno rimaneva. Forse rivolgersi a uno stregone sarebbe stato meglio.

Martino Cerone


Alla fermata dell’autobus, Giovanna ripensava a quello strano incontro e ai risvolti inaspettati di quella seduta. L’incontro con lo psicanalista, in crisi d’identità, l’aveva disorientata e aveva suscitato in lei nuove domande che parevano senza risposta… Chi era questa Arabella? Perché l’aveva chiamata così quel bizzarro specialista? E il sogno, a cui aveva cercato invano di dare un significato, era stato veramente un sogno? Ripensandoci… quella notte aveva davvero visto dei bagliori … ma no…erano le prime luci dell’alba… Eppure, il mattino seguente, c’erano tracce di bruciato nel campo di cicorie del vicino…ne era certa, perché le aveva viste, passando! E poi, le luci improvvise che l’avevano destata nelle notti precedenti?  … Quasi fossero dei riflettori sulla sua finestra…in un luogo senza illuminazione… era solo un parto della sua mente?

Intanto il bus era arrivato, era l’ora di punta, ed era pieno di passeggeri.  Giovanna, frettolosamente era salita a bordo, in cerca di un posto a sedere, per evitare di dover star in piedi per tutto il tempo del tragitto.

Affollata la mente da queste strane coincidenze, cui non riusciva a dare una spiegazione plausibile, era rientrata al dormitorio universitario, salutò il suo vicino, che, però, diversamente dal solito, non si accorse della sua presenza, intento com’era a risistemare il campo e le sue piantine di cicoria, inspiegabilmente bruciate qualche notte prima. Nicola, questo era il suo nome, era un uomo buono, passata la mezza età, non si era mai sposato, ma aveva dedicato la sua vita alla coltivazione di quel suo piccolo orto, cui dedicava cure e attenzioni quotidiane. I ragazzi del dormitorio universitario erano per lui un’allegra presenza, ma non era mai stato invadente, e aveva stretto amicizia con chi aveva mostrato interesse per il suo lavoro e aveva rivolto a lui delle parole, anche se solo di saluto. Giovanna era tra queste, lei amava la terra, in fondo proveniva da una famiglia modesta, che coltivava i campi ma aveva fatto tanti sacrifici perché lei potesse studiare e seguire le sue inclinazioni.

Passò, quindi, senza insistere oltre, quel giorno. Chi aveva potuto fare una cosa simile e perché? Nicola era ben voluto e non dava fastidio a nessuno. Giovanna avrebbe voluto raccontargli della storia che le pareva di aver vissuto quella notte, della luce, dei bagliori e dell’incontro con gli ufo …. finora non l’aveva raccontato a nessuno, ma le avrebbe, davvero, creduta? … Forse era meglio ritornare dallo psicanalista…. E poi, non era neppure lei sicura che quell’incontro fosse veramente accaduto, per cui, ritornò nella sua stanza, senza indugiare oltre. Accesa la radio, com’era solita fare, la sua attenzione, d’improvviso, ricadde su quello strano nome… “Arabella’s got some interstellar gator skin boots” … stavano dando in radio la canzone della band britannica degli Arctic Monkeys… il singolo, estratto dal pluripremiato album AM (ultimi in ordine di tempo i Brit Awards e gli NME Awards 2014) …  Arabella ha degli stivali interstellari a squame …  E quando ha bisogno di ripararsi dalla realtà   … “And when she needs to shelter from reality” … “She takes a dip in my daydreams” …. Fa un salto nei miei sogni ad occhi aperti … “Arabella’s got a ’70s head” … Arabella ha una testa anni Settanta… “But she’s a modern lover” ma è un’amante moderna “She’s made of outer space” …Lei è fatta di spazio…  “And her lips are like the galaxy’s edge” … E le sue labbra sono come l’orlo della galassia… “And her kiss the colour of a constellation fallin’ into place …” E il suo bacio, il colore di una costellazione che cade al suo posto”. 

Giovanna sembrava davvero essere venuta da un’altra galassia… era bellissima, ma nonostante ciò, era molto chiusa e riservata.

Che lo strambo psicanalista fosse un appassionato di musica rock post punk britannica e avesse voluto omaggiarla con quella citazione?  Pensava tra sé e sé divertita … D’altronde, aveva insistito perché Lei rimanesse, nonostante avesse dato poca importanza a quella domanda, che era stata la ragione di quella seduta…

Mentre sorrideva, compiaciuta, non tanto per le eventuali attenzioni di un improbabile adulatore, quanto per le belle frasi del testo di quella canzone, scoprendo un senso di vanità, per lei del tutto inaspettato, la sua attenzione ricadde nuovamente su quelle pagine aperte casualmente del libro d’arte che aveva letto con tanta curiosità, giorni prima, e che si soffermava ad analizzare la strana presenza di possibili entità aliene nelle opere pittoriche dell’arte Medievale e Rinascimentale… Giordano Bruno, bruciato sul rogo per eresia in Campo dei Fiori a.d.1600, era fermamente convinto che i mondi sono infiniti e che non siamo soli nell’universo, anche mentre il suo corpo bruciava e il fumo nero lo soffocava. L’abiura di quella grave certezza gli avrebbe salvato la vita, ma lui scelse il fuoco… Giovanna, a stento, credeva a quelle strane coincidenze, ma, certo, non sarebbe finita sul rogo, al giorno d’oggi, …almeno non su uno, come quello del celebre frate filosofo, troppo avanti per il suo tempo. Tuttavia, il rischio di finire sul “rogo” dell’altrui incomprensione, cosa frequente nel mondo in cui viviamo, trattamento che Lei stessa aveva riservato, d’altronde, allo psicanalista, non poteva essere sottovalutato; ma la tentazione di andare oltre era troppo forte, perché, dunque, non indagare… dopotutto era un’appassionata d’arte medievale e rinascimentale, e l’incubo o sogno, fin troppo vivido, di quella notte lo “lesse”, in quel momento, come uno stimolo ad approfondire quell’argomento. Arabella, – rifletté -, in realtà è anche un nome che alcune fonti riconducono al latino “orabilis”, che vuol dire “invocabile”, “che ascolta le preghiere” ….

Silvano Lorenzo Pinto


“Ascoltiamo i segni del destino, allora!”, pensò, addormentandosi nel suo letto vestita, non rendendosi conto che, senza nemmeno aver cenato, i suoi pensieri l’avevano condotta fino a tarda sera e gli auricolari, ancora nelle orecchie, risuonavano ad libitum gli Arctic Monkeys che Giovanna aveva scovato su Spotify per ascoltarne tutti i brani. La mattina seguente, il cielo appariva finalmente di un azzurro vivido, dopo giornate uggiose. La rugiada giaceva placidamente sull’erba, lasciandosi accarezzare dolcemente dai primi raggi di un timido sole. La primavera era ormai alle porte e i primi germogli dell’orto di Nicola ne erano la prova. Lui se ne occupava con una cura maniacale. Ne era geloso e sentiva un legame quasi patriarcale. Senza figli non aveva potuto godere di quel sadico e ancestrale potere di ridurre a sottomissione e obbedienza. Con le piante, però, poteva farlo. Facevano quello che diceva lui e si comportavano in maniera coerente con le sue aspettative. Nella agricoltura e nella selvicoltura niente si improvvisa e tutto rappresenta una scientifica conseguenza di determinate attività. “La natura deve obbedire all’uomo e questo non deve cambiare mai” – pensava – “Anche quando magari è un po’ doloroso…”. Infatti, gli era dispiaciuto bruciare le cicorie, ma era stato necessario! Quella mattina uscì come ogni giorno alle 6.30 per fare una passeggiata, con la sua andatura barcollante dovuta ai postumi permanenti di quel maledetto incidente che gli causò la frattura del bacino. Con lui c’era Kimy, un golden retriever di razza che aveva acquistato pochi giorni dopo essere andato in pensione e tornato in Italia, nella sua Bologna. “Hai visto che bella giornata, Kimy?” – disse Nicola, mentre lo accarezzava sotto il muso, come piaceva a lui. Inspirò profondamente, quasi a voler incamerare tutta quell’aria frizzantina in un solo istante. Riconosceva i profumi della primavera e dei campi che stavano fiorendo, che lo riconducevano alla sua infanzia e alla sua adolescenza trascorse proprio lì, quando ancora erano i vivi i genitori e quando ancora non avevano costruito quello stupido dormitorio… Già, il dormitorio… Si fermò un attimo e si girò a guardarlo, mentre Kimy rivendicava la sua passeggiata. Quanti ricordi lugubri gli venivano alla mente! Quante storie orribili avevano dovuto vedere le pareti di quell’edificio! Nicola sapeva che era vero quello si diceva all’epoca in città. E lui, proprio a causa di quel cubo di cemento, apparentemente innocuo, era stato costretto a lasciare la città, prima, e l’Italia, poi. La sua terra natìa gli era mancata. Dopo una vita trascorsa negli Stati Uniti a lavorare per la NASA come ingegnere aerospaziale, ora si stava godendo la vita da agricoltore. Ma aveva un conto in sospeso con quel “cubo” e non poteva morire sereno, prima di saldarlo. Al ritorno dalla passeggiata, Nicola notò un’auto parcheggiata vicino al suo orto, ma non era riconducibile a nessuno degli studenti (oramai le conosceva a memoria). Era una berlina nera. Si avvicinò preoccupato, cercando a fatica di allungare il suo passo esitante. Lo sportello dall’auto si aprì e lo vide. “Franco, si può sapere che diamine ci fa qui?” – bofonchiò Nicola.  “Sì scusa, lo so, ma dovevo parlarti di persona”, gli rispose il dottore. “Vieni subito dentro! O ci faremo scoprire”. I due entrarono in casa. “Che diavolo devi dirmi?” – gli chiese minaccioso Nicola. “Beh… niente… L’incontro con Giovanna non è andato come volevamo…”. “Cioè? Spiegati meglio”. “A dire il vero… È andato proprio di merda! Ho pure sbagliato il nome quando è entrata! E poi…”. “Ma che imbecille! Stai zitto, stai zitto!” – lo interruppe Nicola, ringhiando e avendo cura di non farsi sentire – “Non voglio neanche sapere come è andata! Sicuramente eri strafatto di cocaina e alcolici vero?”. Franco non rispose e abbassò lo sguardo. “Ho impiegato un casino di tempo per entrare nel computer di Giovanna e monitorare la sua attività on line attraverso una specie di virus informatico! Ho capito che stava cercando uno psicanalista e sono riuscito ad indirizzare la sua ricerca verso di te e ora tu butti tutto all’aria! Io ho bisogno di uno strizzacervelli e tu ormai ci sei dentro fino al collo in questa storia! Quindi, ora tu alzi il culo dalla sedia, torni a casa immediatamente, prima che Giovanna si sveglia e ti vede qui, la richiami e mi risolvi il problema, facendo quello che avevamo stabilito, maledizione!”.

Fabio Baldissara


“Certo che è proprio un tipo, quel Nicola”, pensò Franco, dopo la terza pippata della serata. “Fra tutti i pazzi che ho incontrato nella mia vita è quello più fuso in assoluto, senz’altro”. E dire che lui di pazzi se ne intendeva, un po’ per il mestiere che faceva e un po’ perché (ne era consapevole) era completamente pazzo anche lui.

Spotify mandava a ripetizione “Arabella” degli Arctic Monkeys, una delle sue canzoni preferite. Arabella che viene dallo spazio: bellissima Arabella, amore, grazie a Nicola, forse, sarai mia.

Nicola era un vecchio amico di Franco, dei tempi del liceo. La sua famiglia aveva abbandonato il paese poco dopo il suo diploma, da un giorno all’altro, senza preavvisare nessuno e in fondo tutti ne erano stati contenti, perché quelli là non stavano mica tanto a posto con la testa.

Franco era stato molto sorpreso di rivederlo in paese due anni prima, mentre, con un’andatura claudicante, stava per entrare in un negozio di elettrodomestici, guardandosi intorno circospetto, come un ragazzino che, in procinto di entrare in un cinema a luci rosse, voglia assicurarsi che non ci siano amici dei genitori in giro che possano fare la spia. “Nicola!”, lo aveva chiamato a gran voce: e quello aveva fatto un salto, come attraversato da una scossa elettrica. Si era voltato e, dopo qualche secondo, lo aveva riconosciuto. “Franco…”, aveva risposto, abbozzando un sorriso tirato e falso come una banconota da trenta euro. Era stato quel sorriso folle ad incuriosire Franco ed a fargli pensare che sarebbe stato interessante capire quale oscuro buco nero c’era dietro. Dopo averlo raggiunto e a seguito di un brevissimo scambio di battute, Franco lo aveva invitato a cena ed era tornato a casa, ancora più curioso.

E a cena, Nicola gli aveva raccontato tutto. Inizialmente, per la verità, gli aveva detto che dopo il diploma si era trasferito con la famiglia a Trieste, dove aveva trovato impiego come ragioniere in uno studio associato e che a seguito di un incidente automobilistico abbastanza grave aveva rischiato di restare paralizzato, ma che ne era uscito bene e aveva deciso di mollare tutto, tornare al suo paesino vicino Bologna nella casa di famiglia e campare di rendita (a Trieste pagavano bene), coltivando il suo orticello. Poi però, complici i ricordi di un’antica e sincera amicizia, le abilità persuasive di Franco e, non ultimo, la generosa dose di pentotal aggiunta al vino che stava bevendo, Nicola aveva raccontato la sua verità: nel dormitorio universitario vicino casa sua il governo conduceva da sempre degli esperimenti di condizionamento mentale, usando come cavie gli ignari studenti. Qualche giorno dopo il suo diploma, per caso, mentre tornava a casa, attraversando la strada, aveva visto allontanarsi un pick-up con sopra un macchinario che permetteva la lettura della mente (Nicola non era riuscito a spiegare come faceva a sapere che serviva effettivamente a quello: ma lo sapeva). L’autista del mezzo lo aveva visto e, preso dal panico per la paura di essere stato scoperto, lo aveva investito ed aveva proseguito senza fermarsi. Nicola aveva riportato una brutta frattura al bacino ma in qualche modo era riuscito a tornare a casa e aveva raccontato tutto ai genitori. Questi gli avevano creduto subito e il giorno dopo si erano trasferiti tutti in America, in un paesino della California dove avevano dei parenti, per sottrarre Nicola alle rappresaglie del governo. Lì si era laureato in ingegneria aerospaziale, era stato assunto dalla NASA e, dopo venti anni passati a studiare segretamente le tecniche di condizionamento della mente umana, era tornato in gran segreto al suo paese oltre tre anni prima, nella sua vecchia casa di famiglia, aveva tenuto d’occhio il dormitorio ed aveva fatto amicizia con una dottoranda di nome Giovanna (oh, dolce Arabella) che, secondo lui, era una vittima degli esperimenti del governo ed era stata mentalmente condizionata a credere di essere perseguitata dagli alieni: per questo, la ragazza andava protetta ma anche studiata, per smascherare gli intrighi del governo.

Franco si era offerto subito di aiutarlo. Sapeva benissimo che Nicola era pazzo, che la sua storia non aveva il minimo senso e che se Giovanna era convinta di essere perseguitata dagli alieni era solo perché Nicola continuava a regalarle cicorie arricchite con piccolissime dose di acido lisergico (che lui gentilmente gli procurava, convincendolo che fosse necessario farglielo assumere per tenerla meglio sotto controllo), ma lo aiutava per un motivo che Nicola, nella sua follia, non poteva aver percepito e che nessuno conosceva: Franco era totalmente pazzo e voleva Arabella, la “ragazza venuta dallo spazio”, per “studiarla”. Ma non nel senso che intendeva Nicola.

Per cui, quella sera doveva essere lucido e riparare agli errori del giorno prima: niente alcool, solo cocaina (permette di ragionare più lucidamente).

Alzò il telefono e compose il numero di Arabella.

Antonio Lomonaco


“Cosa vuole ancora lei?!” – la voce di Giovanna tuonò nell’orecchio di Franco ma del resto cosa poteva aspettarsi dopo l’ultimo incontro, cercò di controbattere con il tono più dolce e professionale che gli riuscisse “Signorina, mi scusi per l’ultima volta. Il mio comportamento è stato ben lontano da quello di un professionista e vorrei riparare a questo con un nuovo incontro, ovviamente se lei è d’accordo”, Giovanna prese un momento per pensarci ma l’unica cosa che le passasse per la testa era il suo disperato bisogno di riposo e quindi accettò una nuova seduta, Franco rispose entusiasta “Perfetto, le va bene oggi alle 16?” Giovanna rispose di si e chiuse drasticamente la telefonata.

Il tentativo di creare quella voce adulante aveva debilitato un po’ Franco e dovette ricorrere ai ripari, ergo una bella striscia era proprio ciò che li serviva.

Giovanna appena chiusa la telefonata si rendeva conto che andare nuovamente da quel pazzo di uno psicanalista non avrebbe sortito miglioramenti ma del resto cosa le costava? Proprio nulla dato che la sua situazione era già penosa e di certo non sarebbe potuta peggiorare.

“Non può peggiorare” era il mantra che ha continuato a recitare fino a quando non si è trovata davanti alla porta dello studio.

Bussò e la porta le si aprì davanti immediatamente, trovando davanti a sé il dottore con degli occhi spiritati che causarono l’inversione del mantra in “Può peggiorare e anche tanto”.

Ma al contrario dell’ultima volta fu colpita dalla gentilezza di quel dottore che la invitò a sedersi e le porse davanti una tazza di tè che accetto volentieri.

Il dottore prese a parlare con una voce calma e tranquilla che cozzava con i suoi movimenti nevrotici e quegli occhi che non battevano mai le palpebre e la scrutavano come se fosse una ballerina di lap dance “Allora mi racconti questo sogno?”- Giovanna per evitare quello sguardo troppo invadente si concentrò sullo scorcio di città che si vedeva fuori la finestra e iniziò a raccontare il suo “sogno” senza tralasciare alcun dettaglio e ponendo alla fine la domanda “Può un sogno sembrare così reale?” solo in questo momento ripose il suo sguardo sul dottore che aveva mutato il suo atteggiamento rendendolo concorde con il tono di voce calmo di prima, se ne stava lì seduto con le mani incrociate e lo sguardo pensoso, era in un stato meditativo profondo.

Quello stato meditativo fu interrotto dalla domanda “Ma lei fa uso di allucinogeni?” Giovanna a quella frase strabuzzò gli occhi e rispose presa dall’impeto “Ma certo che no! Per chi mi ha preso!?, basta sapevo che era una pessima idea ritornare qui, me ne vado!” mentre stava per aprire la porta si sentì tirare il braccio e Franco le disse con tono serioso  “Torni a sedersi, la mia domanda non voleva insultarla in alcun modo era solo per eliminare una possibile spiegazione” Giovanna si calmò e tornò a sedersi rimanendo, però, in uno stato di allerta in maniera da scappare il più velocemente possibile non appena non fosse uscita un’altra frase fuori luogo da quel dottore così particolare.

Franco ritornò a parlare “I sogni sono una manifestazione del nostro subconscio, un luogo dove vengono a manifestarsi tutti i nostri turbamenti, paure e desideri più reconditi, è forse la parte più vera di noi stessi perché è lì che il nostro cervello ha la piena libertà di azione e tale libertà a cui non siamo abituati rende alle volte inspiegabili i sogni che viviamo ogni notte” Giovanna lo ascoltava attentamente ma non riusciva a capacitarsi di come quel dottore pazzo che parlava dell’inutilità della sua scienza e del fatto che i sogni fossero un’orgia del nostro subconscio ora potesse apparire una persona così rispettabile e che sembrasse convinto di ciò che diceva, chissà quale fosse il perché di questo cambiamento così drastico.

Fabio Fasciglione


Allorché, Franco aggiunse: “Vede, per quanto io possa essere contrario all’introiezione di particolari dottrine di pensiero, l’interpretazione dei sogni può costituire un primo ed importante passo di un processo di riconoscimento di comportamenti dannosi ed autolesionisti”.

Giovanna trasalì all’ascolto di quelle parole: “Mi sta dicendo che il fatto che io abbia sognato di aver subito un rapimento alieno comprova una mia condotta autodistruttiva? Ebbè, in effetti, perché semplicemente defenestrarsi quando posso dar vita ad un ben più congegnato piano di auto-annichilimento che parte dal farmi credere pazza da chiunque mi circondi, in primis da uno psicoanalista la cui dipendenza dalla cocaina – o qualsiasi altra cosa immetta nelle sue narici – è chiara come la luna in una notte d’estate?!”

“Arabella, innanzitutto ci vada piano con simili insinuazioni. Potrei anche offendermi. D’accordo, forse le mie narici potrebbero tranquillamente apparire in un episodio di Narcos per aver trasportato qualche piccolo carico di contrabbando, ma chi, a questo mondo, è perfettamente a suo agio con la propria vita e riesce a domare i propri demoni interiori?” – disse il dr. Franco, seguito immediatamente dalla ripresa della ragazza, la quale giustamente osservava: “Ehm… lei, teoricamente? Non è forse per questo che le persone si rivolgono a lei, per cercare un aiuto nel gestire e domare quei demoni? Per cui è scontato pensare che lei sia il primo a riuscirci. E poi si può sapere perché continua a chiamarmi Arabella?”

“Senta, vuole che l’aiuti o no, Arabella?”.

“Ma io non mi chiamo Arabella!”.

“Un problema alla volta, Arabella. Anzitutto, parlami di questo famigerato sogno in cui venivi rapita dagli alieni.”

“Ah, adesso ci diamo del tu?”

“Beh, non vedo cosa ci trattenga dal farlo. Siamo in un contesto confidenziale, d’altronde. Tu sai delle mie affaticate narici ed io sto per scoprire che dietro i tuoi comportamenti passivo-aggressivi si cela un orpellato odio viscerale per te stessa.”

“Una curiosità, la laurea l’ha presa per corrispondenza o le svendevano negli anni ’70?”

“Disse la sgraziata ragazzina che si è recata dal primo psicoanalista strafatto che ha trovato online per lamentarsi di stupidi complotti governativi che vedono coinvolto il suo dormitorio universitario, che poi altro non sarebbe che una copertura per lo svolgimento di test segreti condotti su degli ignari studenti le cui menti vengono plagiate e vien fatto credere loro di aver vissuto situazioni inspiegabili, quali un rapimento alieno…”

“Allora lo ammette che è fatto come un unicorno!” disse Giovanna schiamazzando, prima di interrompersi improvvisamente. Le occorreva un attimo, un singolo e quanto più eterno attimo per realizzare le ulteriori cose dette dalla versione pseudo-laureata di Snoop Dogg.

Alex Buccino


“Scusi? Cosa ha detto?!” chiese Giovanna con tono nervoso mentre iniziava ad alzarsi, fissando quel pazzoide.

“Arabella, si calmi…”

“La smetta di chiamar-” uno scatto del dottore le fece inghiottire le restanti parole per trasformarle in un urlo, ma la mano dello psicanalista bloccò il processo.

Mentre sentiva il respiro caldo e pesante di Giovanna sul palmo della sua mano, Franco pensava alle conseguenze di ciò che aveva appena detto, fissandola allo stesso tempo con un interesse mai provato prima. Arabella, venuta dallo spazio, era seduta davanti ai suoi occhi, e la stava addirittura mantenendo per il polso!

Si rese conto di non poter tornare più indietro, e di dover abbandonare quella finta cordialità che aveva acceso un lieve interesse in Giovanna. La sua mente ora era un campo di battaglia innevato dove a scontrarsi erano il suo folle amore per lei e il pensiero sul da farsi. Ma allo scontro prese parte un altro componente: un rumoroso pick-up, con qualcosa di strano sopra, stava percorrendo la strada davanti la finestra del suo studio. Senza lasciargli ulteriore tempo, Giovanna colpì quell’assurdo dottore con la mano libera e iniziò a correre, lasciandogli qualche lacrima sul pavimento.

La sua dolce e amata Arabella lo aveva colpito in pieno volto, e se n’era andata. Assalito dai troppi eventi sovrapposti Franco iniziò a gridare mantenendosi la testa.

Giovanna, palesemente scossa da quanto successo, al sentire l’urlo del dottore aumentò la sua velocità cercando di vedere in mezzo al mare che aveva negli occhi. Non capiva il perché di tutto quel disordine che aveva in testa, di quelle lacrime, e questo la rendeva ancora più confusa.

Notò, fermo al semaforo, quel pick-up arancione che era solito sostare nel perimetro del dormitorio. Non aveva mai capito il suo scopo ma sapeva dove stava andando. Prese quindi dalla macedonia di emozioni nella sua testa un pezzo di coraggio e, con un’insolita calma, chiese un passaggio.

Roberto Lisandro


Giovanna bussò ripetutamente al finestrino del pick-up. Un uomo sulla trentina protraendosi verso il sedile dei passeggeri aprì lo sportello, lasciando entrare la giovane dottoranda. La ragazza, ancora in affanno per la corsa e sotto shock per la conversazione surreale avuta con Franco, inizialmente non badò all’uomo seduto al posto di guida, fin quando non notò uno zaino blu con delle spille appuntate sulla tasca laterale. La sorpresa non poteva essere più grande: alla guida c’era il suo relatore, il professor de Benedictis, uno dei maggiori esponenti della ricerca in campo di storia ed arte medievale, noto tra le studentesse per il suo carisma e per la sua notevole bellezza.

-P-p-professore- mormorò Giovanna, notevolmente scossa dall’ennesimo inverosimile evento della giornata.

-Salve signorina Ferrari, come mai è così agitata? Qualcuno ha tentato di importunarla?

La studentessa, rendendosi conto che la sua storia sarebbe apparsa alquanto strana da raccontare, preferì tacere sul colloquio avvenuto pochi minuti prima con quell’uomo, spostando l’argomento sul veicolo guidato dal docente.

-Ah, quindi questo è il famoso pick up arancione che ogni mattina vedo parcheggiato di fronte al mio dormitorio, non immaginavo le appartenesse.

L’uomo dai capelli corvini e dagli occhi leggermente a mandorla annuì distratto, assorto probabilmente in pensieri più profondi. Il silenzio divenne sempre più imbarazzante e Giovanna cercò di concentrarsi su qualcosa di brillante da dire per dare una buona impressione di sé al professore. A distrarla dai suoi pensieri fu però un ciondolo che pendeva dallo specchietto interno della vettura: la forma era quella di una mezzaluna coperta da una nuvola, su cui erano incise le seguenti parole: “Goodbye Arabella”.

La giovane spalancò gli occhi, notevolmente agitata: chi era Arabella e perché continuava a perseguitarla?

Il professore sembrò leggerle nel pensiero e le chiese, nuovamente curioso:

-C’è qualcosa che desideri domandarmi Giovanna? Ti vedo alquanto perplessa!

Stupita dal cambio di tono del docente e dall’improvviso rivolgersi a lei in modo informale, la ragazza esclamò: -Ci sono tante domande a cui non riesco ormai da tempo a dare una risposta, non saprei nemmeno da dove cominciare…

Mentre pronunciava queste parole si rese conto di essere ormai giunta in prossimità del dormitorio e di avere poco tempo per poter esprimere tutti i suoi dubbi all’uomo che le stava accanto.

-Tenterò di chiarire ogni tua perplessità, ma ogni cosa ha il suo tempo, sappi che non ti sono nemico e che potrai contare sul mio aiuto- e così dicendo le sorrise.

Alla ragazza le si illuminarono gli occhi, probabilmente il professore custodiva il segreto di Arabella e presto tutto le sarebbe stato svelato; pertanto, una volta scesa dalla macchina e dopo aver salutato il suo accompagnatore, cadde in un sonno spensierato.

I giorni passavano lentamente e del professore de Benedictis però non c’era traccia: non partecipava più ai ricevimenti e non lo si vedeva a lezione da tempo. Ciò che destava sospetti in Giovanna era soprattutto il fatto che il pick-up fosse ancora parcheggiato nei pressi del dormitorio.

Dopo due settimane di totale silenzio, la ragazza decise di andare ad esaminare il veicolo abbandonato. La prima cosa che notò fu il ciondolo che non era più al suo posto. Una sensazione di paura le attanagliò lo stomaco, temeva che qualcosa di brutto fosse accaduta al docente. Ancora ricordava le ultime parole che l’uomo le aveva rivolto, prima di sparire nell’oscurità in quella sera che ormai appariva così lontana: – Chiarirò ogni dubbio, ma per il momento non provare ad indagare su questioni che potrebbero metterti in pericolo. Buonanotte.

Sconsolata, Giovanna si diresse verso la sua stanza, quando notò sulla soglia dell’appartamento una piccola scatola con su scritto esclusivamente il suo nome. La aprì incuriosita. All’interno vi era il ciondolo posseduto dal docente con su inciso “Goodbye Arabella” e una piccola pen drive.

Andromeda


Ma che cosa stava succedendo? E perché? Perché a lei, che era la meno popolare dell’Università, quella che evitava sempre le situazioni strane e pericolose. Il desiderio di scoprirlo era grande, ma grande era anche la paura di cacciarsi in qualche guaio, o forse di esserci già. Guardò da lontano la scrivania sulla quale era poggiato il suo portatile grigio. E poi osservò la pen drive nella scatoletta bianca vicino al quel ciondolo luccicante. Chissà che tipo di documenti poteva mai contenere, magari qualcosa che avrebbe generato altre situazioni poco piacevoli. Si decise e dopo aver acceso il portatile, inserì la pen drive e ne controllò il contenuto. Strano! Soltanto due cartelle. La prima col nome “LA STRADA”, e la seconda “LA META”. Sospirando e continuando a chiedersi perché tutto questo mistero si fosse insinuato nella sua vita apparentemente tranquilla, aprì la prima cartella e si accorse che al suo interno era stato salvato solo un file di testo. Aprì anche quello e cominciò a leggerne il contenuto: “Le cose seguono sempre un certo ordine. Segui la strada. Fai attenzione.” e nient’altro. Pensò subito ad uno scherzo, qualcosa che qualcuno aveva messo su per prenderla in giro. A quel punto, valeva la pena controllare il resto dei file e delle cartelle dentro la pen drive. Nella seconda cartella, quella denominata “LA STRADA”, erano contenuti una serie di file di diverso formato. Il primo era un’immagine. Ora l’agitazione cominciava davvero a farsi sentire, perché dentro quel file poteva nascondersi qualsiasi cosa, qualcosa di pornografico, qualcosa di schifosamente macabro, o qualcosa di orrendamente grottesco. Ma era soltanto un’immagine, se fosse stato brutto guardarla, bastava semplicemente chiuderla. Doppio click e sul monitor comparve una foto del viale davanti al dormitorio. Nulla di schifoso, menomale. Nell’angolo in basso a destra, c’era un triangolo di colore giallo, evidentemente apposto di proposito sulla foto. Tornò alla cartella e aprì il secondo file, un file di testo di grande dimensione. Era la scansione di un libro di magia, si intitolava “L’Invocazione delle Anime”. Ogni pagina del libro era in bianco e nero, visto che rappresentava una copia, ma sulla pagina della copertina compariva lo stesso triangolo giallo già visto nella foto, senza però la base. Uno strano triangolo giallo senza il lato inferiore. Giovanna era davvero confusa, e notò che in quel mare di pagine bianche, parole e simboli, era stata evidenziata ogni qualvolta si presentava la parola orabilis. Tornò ancora indietro nella cartella per aprire il terzo file, ancora una volta un file di testo, dalla dimensione notevolmente inferiore. Al suo interno era scritto soltanto una frase, forse l’introduzione di una lettera: “Cara Arabella, oggi è il tuo onomastico”. Ma cosa voleva significare quel nome? Perché ricorreva così spesso? Forse era il caso di interrogare Google e capire velocemente se l’onomastico di chi si fosse chiamata Arabella, era davvero collegato ad un giorno specifico. Il risultato fu sorprendente e indicava con sintetica chiarezza il 1° Novembre. Ma un’altra cosa la turbava, cosa rappresentava quel cerchio giallo con un taglio nel centro sotto quella strana frase? Il file successivo era qualcosa di veramente particolare e bizzarro, era una registrazione sonora. Il programma per la riproduzione dei suoni si avviò e ne venì fuori il suono di una cornamusa, piacevole e preoccupante al tempo stesso. Ancora una volta la cosa che tenne fermo lo sguardo di Giovanna, era il simbolo giallo su fondo nero che il programma riconosceva come copertina del brano, un cerchio, questa volta con un taglio non orizzontale, ma che in maniera verticale, esattamente al centro, ne tagliava i bordi da parte a parte. Ok, un ultimo file. Di nuovo un’immagine, una foto, che ritraeva un edificio dal massiccio portone e dalle linee austere. Una struttura che non ricordava di avere già visto, ma che in qualche maniera le sembrava familiare. Anche su questa foto, nell’angolo in basso a destra un simbolo, un segno giallo facilmente riconoscibile. Era un omega maiuscola. Ma che cosa…. Una scintilla le accese gli occhi mentre afferrò velocemente un pezzo di carta, una penna e riaprì tutti i file in quella cartella. Appuntò tutti i simboli e quella scintilla divenne una luce. Erano tutte lettere maiuscole dell’alfabeto greco. Cominciò a pensare ad alta voce: – Ok, forse sto vivendo le avventure di qualche protagonista di una serie TV, ma probabilmente queste lettere avranno un significato. E se ognuno dei file nascondesse un indizio? – Alzò lo sguardo concentrandosi sulla piccola crepa nel muro, esattamente sopra la mensola dove aveva tutti i dizionari ordinatamente riposti, si batté tre o quattro volte la penna sulle labbra: – Forse le lettere vanno messe in ordine, come stanno nell’alfabeto greco, in questo modo gli indizi vanno considerati in quell’ordine…aspetta un attimo! – Tornò al portatile e cliccò le volte necessarie per tornare alla prima cartella, quella dove c’era il file del primo messaggio e lo rilesse: “Le cose seguono sempre un certo ordine. Segui la strada. Fai attenzione.” – Ok, allora l’ordine degli indizi dovrebbe essere: Delta, il viale del dormitorio; Teta, il 1° Novembre; Lambda, l’invocazione delle anime; Phi, la Scozia; e in ultimo Omega, l’edificio misterioso. Secondo quest’ordine dovrei percorrere tutto il viale del dormitorio e, se il secondo indizio sta per Via 1° Novembre, seguire quella strada…- Afferrò velocemente il foglietto con gli appunti, il ciondolo e lasciò la sua stanza sbattendo rumorosamente la porta.

Salvatore Nardiello


La giovane ragazza si precipitò nel corridoio del dormitorio, alla fine del quale vi era una grande vetrina “Cimeli e Opere del Medioevo”. Scrutando attentamente il contenuto, come mai le era capitato di fare, il suo occhio si posò su un piccolo quadro, che forse solo lei poteva colpire:

“Jean Fouquet-1450ca- Incoronazione di Filippo II” e nella descrizione “[…]il giovane quindicenne venne incoronato nel 1179, giorno 1 NOVEMBRE”.

Giovanna non era più abituata a credere alle coincidenze ed al mattino si recò in biblioteca per indagare. Chiese in prestito una decina di libri riguardanti questo misterioso giovane Re francese, cercando tra questi qualcosa che la potesse ricondurre al secondo indizio, l’invocazione delle anime.

Dopo aver sfogliato pagine e pagine, sussultò, quando un capitolo del “Biografia dettagliata di FilippoII” titolava “Luigi VII e l’invocazione dell’anima di Filippo”, che alludeva alla preghiere del morente padre per salvare il figlio da una malattia che poteva comprometterne la successione.

L’indizio era stato colto, aprì la pagina, che non sembrava impolverata come le altre: il contenuto sembrava stato rilegato da poco e sembrava non centrare nulla con il resto del libro ma vi conteneva una storia: VULCANO.

Incontrai, durante i miei turbolenti viaggi per raggiungere in gran segreto l’America, un tale Alastair che volle condividermi, con molta confidenza, una parte della sua vita vissuta in un’isoletta vulcanica solitaria, vicina all’Islanda. L’isola di Chirayu era abitata da poca gente, che costruiva le proprie case in legno e viveva di quel poco che un’estesa terra bruciata poteva dargli. Il vulcano, Orabilis, tradotto dallo scozzese Arabella, sovrastava il piccolo villaggio e prometteva ogni giorno l’esplosione con sbuffi di lava ed il persistente odore di zolfo, che ormai assuefaceva gli abitanti.

La vita a Chirayu era condotta in modo particolare, vi erano donne e uomini che non sposati, ma tutti erano sposati con tutti. Le giornate erano caratterizzate dal duro lavoro per la sopravvivenza, legata strettamente alla presenza del vulcano, che donava a loro vita mediante il commercio marittimo dell’Agata arborizzata, un minerale contenuto in alcune pietre vulcaniche dalle proprietà inconfondibili: di colore bianco con inclusioni verdi, dovute alla presenza di silicati di ferro.

Il resto della giornata era caratterizzata da strepitanti feste d’accoppiamento di birra ed orgie, terminate solamente con l’arrivo del giorno seguente. In quel posto, le necessità, come le intendiamo noi nella società moderna a cui apparteniamo, non esistevano. Proprio queste necessità avevano portato un modesto numero di cittadini inglesi e scozzesi a rifugiarsi in Chirayu, per scappare da un mondo troppo tormentato da apparenze e borie.

Questa è Chirayu, l’isola in cui l’unica necessità è sopravvivere, che permette di vivere a pieno quei pochi attimi di assoluta libertà, gli unici momenti che rimangono impressi nella nostra memoria in modo così radicato da diventare uno scopo. Perchè l’agata arborizzata ha come significato terapeutico di aiutare la persona a vedere ogni problema non come un ostacolo, ma come una sfida che l’aiuterà a crescere.

Questo, concluse Alastair, è l’unico modo possibile per vivere in un’isola vulcanica, dove la Natura in ogni momento potrebbe distruggere tutto quello che abbiamo creato, tutti i legami che abbiamo costruito e la vita quotidiana (termine che perde di senso, nel contesto) a cui siamo abituati.

Questa è “LA META.NICOLA”

Francesco Mele


Il cielo era opaco, sembrava coperto da un velo. Mentre percorreva viale dei Cosmonauti, Giovanna si chiedeva quando tutto questo sarebbe finito. Si sentiva stanca. Aveva studiato durante la notte la mappa del complesso del dormitorio, pensando di trovare elementi utili alla sua ricerca, e ora si stava dirigendo a passo lento verso il padiglione più antico, dedicato ad Alastair Reynolds, astrofisico e scrittore britannico, ricercatore astronomo e autore di fantascienza. 

Gli alberi d’acero, che bordeggiavano il viale, erano distanti l’uno dall’altro tre o quattro metri al massimo, le fronde si curvavano sulla strada vuota. Giovanna si guardava attorno, non aveva mai percorso quell’area verde. Le tornavano in mente, in ordine sparso, immagini e suggestioni dei giorni precedenti, e pensava che non si sarebbe mai aspettata che avrebbe cavato qualcosa da una vicenda bizzarra e angosciosa come quella che stava vivendo. Stava indossando panni che non le appartenevano. Aveva un carattere timido, schivo e riservato. Sempre sui libri, nessun colpo di testa. Le sembrava di agire con audacia, noncurante dei pericoli o dei rischi a cui andava incontro, istintiva e curiosa, e questo le stava piacendo. Forse stava agendo in un modo incauto, ma sentiva che si era attivato dentro di lei un processo irreversibile; non poteva fermarsi, doveva andare fino in fondo ed aiutare il professore.

Mentre pensava a tutto questo, senza rendersene conto, aveva accelerato il passo, lasciandosi alle spalle i palazzi di più recente costruzione e trovandosi, finalmente, di fronte a quello che, senza dubbio, era l’edificio misterioso che stava cercando. Verificò sulla mappa. L’edificio presentava decorazioni a rilievo: una quantità spropositata di elementi per le dimensioni del palazzo, pensò. Sulle mura, inoltre, si rincorrevano, intrecciandosi, rami d’edera, il cui verde brillante, tutto sommato, si accordava al giallo ocra delle maioliche, poste sui lati lunghi delle finestre e del portone d’ingresso.

Giovanna avvertì, per la prima volta dall’inizio della corsa, un senso di pace. Aveva l’impressione, infatti, di correre affannosamente da quando aveva sognato, o forse non era stato affatto un sogno, di essere inseguita dagli alieni nel campo di Nicola. In realtà, associava la sensazione di affanno anche al periodo precedente, alla corsa per sostenere gli esami, alla scelta frettolosa della facoltà universitaria, come se non potesse permettersi di fermarsi.

Continuava ad osservare con attenzione i dettagli dal potere ipnotico del palazzo. Sentì un sussulto, poi una sensazione piacevole di calore, poi un inspiegabile senso di appartenenza a quel luogo.

Un movimento catturò la sua attenzione. Qualcuno aveva scostato con decisione una tenda all’ultimo piano. Senza esitare, portò le mani ai capelli per tirarli indietro, afferrò la borsa, che aveva poggiato a terra al suo arrivo, e si diresse verso l’ingresso dell’edificio. La porta era socchiusa, e non ne fu sorpresa.

Giovanna si muoveva con atteggiamento di inconsueta sicurezza e sorprendente naturalezza all’interno di uno spazio che era misterioso e al tempo stesso familiare. Le tende, bianco avorio, lasciavano entrare una luce fioca. Il singolare gioco di ombre e l’odore della polvere provocarono la sensazione di un’esperienza precedentemente vissuta. Questo amplificò la voglia di capire e di risolvere quello che, sempre di più, le sembrava un inebriante enigma.

Nadia Giordano


L’androne di quel luogo ancestrale era tanto immenso quanto vuoto. Giovanna avvertì quella stessa sensazione di vuoto alla bocca dello stomaco ma, mossa dal desiderio di risolvere quel rompicapo così surreale, eppure così familiare, decise di percorrere l’enorme scalinata posta nel mezzo dell’androne. Al termine della scalinata un lunghissimo corridoio con una serie di porte chiuse a perdita d’occhio. Giovanna cominciò a sudare freddo ma, con lunghi e profondi respiri, riuscì a proseguire la sua ascesa fino all’ultimo piano. Tutti i piani erano uguali, tranne quest’ultimo. Qui, al termine della scalinata c’era incisa sul pavimento una meridiana solare con accanto una rosa dei venti. “E’ un segno!”, pensò sollevata. Poi, guardandosi attorno lungo il solito corridoio infinito di porte, notò che ai due lati di una sola delle porte vi erano dei dipinti. Quella porta corrispondeva in linea d’aria esattamente all’Est riportato sulla rosa dei venti. “Altro segno!”, esclamò tra sé e sé. Si avvicinò ai dipinti e riconobbe una perfetta riproduzione di un’opera pittorica che da sempre aveva attirato la sua attenzione e i suoi studi: “Storie di San Nicola” di Ambrogio Lorenzetti, uno dei maestri della scuola senese del Trecento, lo stesso di una Maestà ed altri affreschi nella cappella dell’Eremo di Montesiepi, presso l’Abbazia di San Galgano, nota come luogo in cui è custodita la “spada nella roccia”.

Il puzzle iniziava a comporsi… o a complicarsi!

In un attimo la sua mente partorì convulsamente una serie di nomi, luoghi, reminiscenze di studi accademici… Nicola, San Nicola, Franco, San Francesco, Argonauti, Astri, Scozia, Bologna, Meridiana, Rosa dei venti, San Galgano… TEMPLARI. TEMPLARI. TEMPLARI. Tutto portava ai Templari!

Giovanna, con un sussulto di gioia mista alla vanesia soddisfazione di aver risolto un enigma, ricostruì il puzzle nella sua mente…

Il sig. Nicola rappresentava San Nicola, che, al pari di San Francesco (rappresentato per contrappasso dal sig. Franco), si spogliò dei suoi beni materiali per donarli e donarsi ai poveri. A San Nicola, noto come protettore dei naviganti, nonché dei bambini, delle fanciulle e degli studenti, era dedicato l’Ordine templare degli Argonauti, che, nel sogno di Giovanna, erano diventati moderni astronauti. Ma anche gli astri c’entravano appieno con i Templari e con quel suo pseudo-ipnotico viaggio: la luna nel ciondolo con l’incisione “Goodbye Arabella”, nonché la meridiana e la rosa dei venti sul pavimento, simboli per eccellenza dell’Ordine templare, per di più presenti proprio a Bologna nella Basilica di San Petronio, dove, al suo interno, sul pavimento si percorre una meridiana zodiacale e dove la facciata è palesemente ispirata all’astrologia e al simbolismo medievale. Bologna, sede templare più importante d’Italia, a capo della “provincia” medievale del nord Italia; la Scozia, terra dei Templari per eccellenza, nonché terra in cui ha origine il nome Arabella, nome anche dato ad uno dei ragni crociati spediti nello spazio nel 1973, ma soprattutto nome dal significato profondamente spirituale.

Era forse questo il suo percorso di iniziazione e liberazione dai suoi demoni interiori, come San Nicola aveva liberato Mira dalla carestia, il bambino dal demonio e le tre fanciulle da una vita di prostituzione, tutto raffigurato nei dipinti da lei tanto studiati e ora proprio sotto i suoi occhi? …

Con questo interrogativo che le frullava nella testa e nello stomaco, Giovanna, che ora si sentiva forse più “spiritualmente” Arabella, si fece coraggio e aprì la porta incorniciata dai quadri.

Nella stanza, vicino alla tenda, il professore…

Michela Pinto


.. De Benedectis giaceva in una pozza di sangue. Sul pavimento, la scena di una colluttazione, i libri spalancati alla rinfusa nella stanza, un tagliacarte con un’impugnatura bianca con strani riflessi verdi conficcato in un mappamondo distrutto per metà, le opere d’arte staccate dai muri, un turbinio di carte e polvere faceva da contorno ad una scena macabra. Sembrava un fermo immagine, ma la sua durata effettiva era stata poco più di un battito di ciglia.

Giovanna inorridita, indietreggia verso la porta alle sue spalle. Era pur sempre una scena del crimine quella e le mille serie tv che era solita vedere, una cosa le avevano insegnato: doveva starci alla larga. Avrebbe dovuto chiamare aiuto, l’ambulanza o la polizia magari. Sulla soglia della porta decide di prendere il telefono dalla borsa destreggiandosi tra il filo delle cuffie sempre aggrovigliato a qualcosa. Aveva le cuffie in una mano, ancora attaccate a degli oggetti ed il portafoglio nell’altra, quando una voce ne paralizza i movimenti. Non era sola in quella stanza. Oltre al corpo immobile del professore, c’era qualcun altro.

– Uh dolce Arabella sei qui…ma come sei arrivata qui, tesoro? –

Alla sua desta, con gli abiti intrisi di sangue e gli occhi spalancati, visibilmente posseduto da non so quale sostanza illegale di cui era solito farsi, si palesa Franco. Giovanna avrebbe dovuto colpirlo, urlare, fare qualcosa, ma non ci fu tempo. Franco si stava avvicinando troppo. Giovanna lanciò le cose in borsa ed iniziò a correre via. Via dallo psicanalista strafatto, via dal professore o da ciò che ne rimaneva di lui, via dal posto che sentiva familiare. Via da tutto ciò che pensava di scoprire e di comprendere. Intanto passi pesanti dietro di lei si facevano sempre più vicini. -Arabella, Arabella aspetta… – Giù a perdifiato per le scale. Le emozioni iniziarono a fare a botte con lo stomaco. -Dolce Arabella vieni qui… – un colpo sordo. Via, Giovanna doveva correre via.  Via dalla biblioteca del padiglione Reynolds, via da ciò che conosceva e che pensava di conoscere. Via da quell’uomo che continuava a chiamarla Arabella. Ma per andare via doveva continuare a correre. Mentre le lacrime iniziavano a rigarle il volto e ad affogare le immagini della biblioteca, il petto come un mantice risucchiava aria e il cuore pompava adrenalina nelle gambe di Giovanna. Corse fuori dalla biblioteca e per tutto il tragitto fatto di immagini inondate di lacrime e di ricordi. Quelli dell’astronave quando attraversava il campo di cicorie, per esempio, mista alla sensazione di essere seguita. In un attimo stremata dalla corsa, in debito di ossigeno e di adrenalina, si fermò. Era sola, in un campo di cicorie. Tentò di ricomporsi. Poi a passo svelto, raggiunse il dormitorio e lì decise che ne aveva abbastanza. Avrebbe fatto la valigia e preso il primo autobus per Reggio Emilia. Direzione casa. E così fece. Si sentì sicura solo qualche ora più tardi, dopo aver varcato la soglia della casetta bifamiliare, in via dei Mori, con le tende blu ed il civico 72. Giovanna si tolse il cappotto nero e lanciò la valigia fatta di fretta e la borsa in un angolo vicino la porta d’ingresso. Infine, raggiunse il divano ed accese la tv dal cui dal notiziario scoprì ciò che già sapeva. Erano stati trovati due corpi senza vita nella biblioteca del padiglione Reynolds dell’Università di Bologna. Passò ore davanti allo schermo per seguire gli aggiornamenti. Le interessava sapere se qualcuno potesse averla vista uscire di lì correndo. Se poteva esserci qualche testimone. Ma nessuno sembra aver visto o sentito nulla. D’altronde il primo novembre, complice il ponte dei morti, sono pochissimi gli studenti in giro per il dormitorio e ancor meno quelli che frequentano le biblioteche. Giovanna si tranquillizzò. Le notizie continuavano a informarla di particolari di cui lei era già a conoscenza, il nome della vittima al piano superiore per esempio o di quello dell’uomo strafatto di un mix di droghe ed alcool trovato morto ai piedi delle scale. Mentre i giornalisti si interrogavano su cosa avesse ucciso prima l’uomo, se la caduta rovinosa o l’overdose, Giovanna si addormentò. Intanto il notiziario continuava a illuminare tenuamente il volto della ragazza sul divano e a rimbalzare notizie su notizie. Dell’assassino e dell’arma non c’era traccia. In compenso, indirettamente, il Luminol spalmato con dedizione dalla squadra dei RIS di Bologna, qualcosa aveva contribuito ad individuare: una piccolissima fessura, e oltre questa, in una piccola cavità del muro, uno scrigno. La Rettrice dell’Università, un ex docente di storia dell’arte, ci tenne subito a precisare che, a parer suo, le origini templari dell’oggetto erano inequivocabili. Continuò poi con il disperarsi della perdita del professor De Benedettis, un promettente docente ed un abile studioso che avrebbe gioito della grandiosa scoperta.

-Come molti di voi sanno il caro De Benedettis è…era…- disse la Rettrice trattenendo il pianto – …interessato da tempo alle ricerche su uno dei fini ultimi dell’ordine monastico-cavalleresco: l’obbedienza ad un autorità suprema. Purtroppo, lui non c’è più, ma vi prometto che l’Università si impegnerà a stanziare fondi per continuare le sue ricerche in sua memoria … –

Mentre il televisore continuava a proiettare il faccione della rettrice nel salotto di Giovanna, qualcosa di nuovo stava accadendo. Questa volta, però non al dormitorio o in biblioteca e nemmeno in televisione, ma in via dei Mori. Lì, sotto una pioggerellina fitta ed insistente, un uomo vestito di nero si avvicinava a passo svelto, ma claudicante, verso il taxi dopo aver lasciato sotto il portico del civico 72 una scatola di cartone di grosse dimensioni. Era il suo ultimo saluto prima di lasciare nuovamente l’Italia. Dalla scatola aperta fece subito capolino il muso di un curioso golden retriever di nome Kimy.

Ma questo Giovanna, immersa in un insolito sonno profondo e senza incubi, lo scoprirà solo il mattino seguente dopo aver spostato, dal collare del cane, il ciondolo raffigurante una mezzaluna coperta per metà da una nuvola.

Giovanna Ferretti


Fine